Da qualche tempo il mondo del web europeo è agitato dall’entrata in vigore dell’European Accessibility Act (EAA), una direttiva che obbliga aziende e siti web a rendere prodotti e servizi accessibili alle persone con disabilità.
Sulla carta, la motivazione è nobile: rendere Internet e i servizi digitali fruibili da tutti, senza barriere.
Ma nella pratica?
La mia opinione è chiara: l’EAA rischia di diventare un altro strumento di profitto per i soliti “amici degli amici”, più che un reale vantaggio per l’utente finale.
La normativa impone alle aziende di adeguare siti web, app, servizi digitali e perfino dispositivi elettronici secondo linee guida precise (come WCAG 2.1).
Avere un sito accessibile è senza dubbio positivo, ma la domanda è: chi ci guadagna veramente?
La risposta, purtroppo, spesso non è l’utente con disabilità.
Chi si trova a trarre vantaggio dall’EAA sono soprattutto società che vendono plugin, consulenze, certificazioni e strumenti di compliance, creando un mercato artificiale intorno a un obbligo legale.
Così, un piccolo sito o una PMI devono scegliere tra:
Il risultato? Non più accessibilità pensata come servizio agli utenti, ma accessibilità trasformata in business per pochi.
Questo fenomeno non è isolato. Pensiamo a normative come la legge sul Chat Control, pensate per il controllo dei contenuti online: anche lì la motivazione ufficiale è la protezione, ma nel concreto aggiungono strumenti di sorveglianza e limitazioni alla libertà del web.
Allo stesso modo, l’EAA rischia di diventare un nuovo strumento di controllo: siti web “non conformi” potrebbero essere penalizzati, anche se il loro pubblico non ha alcun problema concreto di accessibilità.
Non è una questione di ignorare la disabilità o di negare l’importanza dell’accessibilità.
È una questione di buon senso: perché obbligare tutti i siti a conformarsi, indipendentemente dalle loro risorse o dal tipo di utenza?
Sarebbe più ragionevole lasciare la scelta di adeguarsi volontariamente all’EAA, con il rischio consapevole di subire conseguenze se non lo fanno.
Questo approccio favorirebbe:
Normative come l’EAA spesso finiscono per appiattire il web su standard che arricchiscono pochi e complicano la vita a molti.
Non è raro vedere imprenditori e sviluppatori frustrati da strumenti obbligatori, plugin costosi e consulenze inevitabili.
Tutto questo senza che l’utente finale noti un reale beneficio, se non qualche piccola ottimizzazione estetica o tecnica.
Insomma, il rischio è trasformare una causa giusta in un circolo vizioso: più norme → più strumenti da vendere → più denaro ai soliti noti → più frustrazione per chi deve rispettarle.
L’EAA avrebbe potuto essere una grande opportunità per rendere Internet più inclusivo, ma così com’è rischia di diventare un obbligo più utile alle aziende che lo vendono che alle persone a cui è destinato. La mia posizione è chiara: sarebbe più sano lasciare la libertà di scelta ai siti web, anche se ciò comporta rischi o possibili penalizzazioni. Solo così l’accessibilità diventa una vera scelta responsabile e non un pretesto per creare mercati artificiali.
Desidero sottolineare che questo post rappresenta esclusivamente la mia opinione personale e il mio punto di vista critico sull’European Accessibility Act e sul suo impatto sul web.
In particolare, esercito pienamente i miei diritti di:
Devi essere connesso per inviare un commento.